Un industriale affermato, che viene dalla gavetta, sta per fare il “passo” della sua vita: acquisire la maggioranza del pacchetto della sua azienda. Nel momento in cui comunica la notizia alla moglie e al suo socio riceve una telefonata che gli comunica che suo figlio è stato rapito con una richiesta di riscatto che lo rovinerà completamente. Qui l’uomo ha solo un attimo di perplessità, ma immediatamente decide che, per salvare il figlio, è disposto a pagare. Però subito dopo scopre che il rapitore si è sbagliato, non ha rapito suo figlio, bensì il compagno di giochi del bambino, figlio del suo autista Aoki. La storia diviene surreale, ma il rapitore insiste, vuole ugualmente i soldi altrimenti ucciderà il bambino. A questo punto, Gondo vive un conflitto drammatico. Circa metà film si sviluppa all’interno del grande salone della casa di Gondo, dove le varie figure (la moglie, il bambino, l’autista, il socio, i poliziotti) si muovono come ombre nella notte, in un bianco e nero asciutto e rigoroso. Quasi un “film da camera”, al cui interno esplode come in una rappresentazione teatrale la tragedia delle scelte morali e umane difficilissime per Gondo. Poi il film, letteralmente, esce fuori. La seconda parte abbandona il protagonista iniziale e ci scaraventa nelle vie, nei vicoli della città. Protagonisti divengono il rapitore, il giovane studente di periferia che compie il suo gesto per l’odio maturato negli anni contro la ricchezza rappresentata dalla villa sulla collina di Gondo, e il poliziotto, le cui indagini minuziose porteranno alla fine all’arresto del ragazzo. E il film si interroga sui rapporti che legano vittime e carnefici, con una rappresentazione che permette di capire le ragioni, anche folli, di ognuno. E l’ineluttabilità dei destini, ma anche la libertà delle scelte individuali.