Novecento (Tim Roth) è un orfano che ha vissuto tutta la sua vita a bordo del transatlantico Virginian, senza mai mettere piede sulla terraferma, diventando un grande pianista; e la sua storia è narrata dall’amico Max (il pregevole Pruitt Taylor Vince), trombettista sensibile e romantico. Su un’impalcatura fortemente metaforica, Giuseppe Tornatore realizza forse il più costoso film italiano (ma totalmente pagato dall’acquirente estero New Line) cercando di ricreare i tempi forti che hanno reso leggendarie pellicole come Novecento e C’era una volta in America (per non dimenticare il felliniano E la nave va). In questo mirabilmente servito dalla partitura di Ennio Morricone. Il film si rivela a tratti come il parto di un grande professionista (uno tra i più preparati e maturi del cinema italiano) nel quale, però, la mente ha preso il sopravvento sul cuore. In sostanza è troppo forte la sensazione di un’operazione studiata a tavolino per risultare «perfetta». Forse è impossibile ricreare il cinema della nostra giovinezza.