''Zulu meets Jazz'' è la più classica storia di un incontro. Segue e contiene tutti i canoni di un racconto fantastico. Sovverte le ambientazioni, gli spazi e i suoni di un incontro musicale, racconta storie di vita di uomini e donne che portano musica e memoria; semina i grani del dubbio, della messa in gioco, della creatività. Il racconto contiene la giusta dose di casualità, quella magica coincidenza dalla quale una storia può dipanarsi. La storia è liquida ed imprevista, condotta dal racconto di un pregiato musicista di colore, ex alcolista e ladro di lezioni di piano alla scuola dei bianchi, e dall'esperienza di un trombettista jazz, bianco e imprudente nel lasciarsi trasportare ora dalle sonorità di una specie di violino a una corda la cui cassa armonica è una lattina d'olio, ora dal suono di un barattolo per il colore che fa da percussione. Il ritmico ruggito di un grosso tubo di plastica percorso da una bacchetta, una corda d'acciaio tesa in un arco, con delle casse di risonanza rotonde, diventa una via di mezzo tra uno xilofono e una ''slide guitar'' e ci porta dal primo concerto di Durban, dove Paolo Fresu e la KZN Vintage Legends Orchestra di Theo Bophela, Ndikho Xaba e Nonhlanhla Dlomo si sono incontrati per la prima volta, sino al concerto al Raimbow, il locale che spesso, durante il periodo dell'Apartheid, ha subito chiusure e retate. Sono quindi variegati e numerosi gli elementi che man mano si presentano nel documentario, percorso dal dubbio riguardo a quali siano i limiti di confronto e confusione tra la musica e le strutture che il jazzista italiano porta in Sudafrica e la musica reinventata con la latta e altri strumenti inventati, in un progetto armonico e melodico intellettualmente selvaggio, ma meraviglioso e continuamente nuovo, seppur radicato in nenie e melodie di tradizioni ancestrali. E, sopra tutte, il dubbio che un limite al confronto possa esistere.